Giovedì Santo
Quello che la liturgia ci propone oggi assume, in questa cornice così strana, paurosa, imprevedibile del coronavirus, un aspetto del tutto speciale. Come tanti secoli fa, nel cenacolo, all’insaputa della maggior parte del popolo e nel caos di una città orientale distratta, avveniva un mistero straordinario, così oggi in una chiesa vuota, non per distrazione, ma per costrizione sociale, noi celebriamo il memoriale dell’istituzione dell’eucarestia. Se abbiamo provato, il distacco, il saluto, il congedo, o il trapasso di una persona cara siamo in grado di comprendere tutta l’intensità umana, psicologica, affettiva di una simile circostanza.
Gesù intuisce di essere alla fine, di dover lasciare la madre, gli apostoli, gli amici, la terra che l’aveva visto nascere trentatré anni prima. Che dire, che fare soprattutto con coloro che non si rendevano conto di quello che stava per accadere? L’evangelista Giovanni concentra all’interno di questa cena moltissimi insegnamenti, raccomandazioni, messaggi, consigli di Gesù come stesse dettando il suo testamento. In questo clima di commozione, tristezza, trepidazione, (paura!), Gesù inventa il modo di restare sempre in mezzo a noi. Trasforma un rito, una cena pasquale del popolo ebraico, nel miracolo dell’eucarestia. Prende dalla tavola il pane non lievitato (ricordo dell’ultima cena prima della liberazione dall’Egitto) e dice: “Questo sono io, questo è il mio corpo e attraverso questo pane sarò sempre con voi”. Prende poi la coppa del vino (sempre memoriale dell’Egitto) e dice: “Questo è il mio sangue”. Che cos’è il corpo e il sangue se non una metafora per indicare l’essenza, la concretezza di una persona? Con questo gesto Gesù assicura la sua presenza, pur spirituale ma reale, sempre in mezzo a noi anche quando fisicamente non ci sarà più. Questa è l’eucarestia, questa è la messa!
A questo punto diviene doveroso riflettere con quale stato d’animo, sentimento, affetto, coinvolgimento noi partecipiamo alle nostre eucarestie. A me sembra che, pur con intento nobile, con le più lodevoli intenzioni, la Chiesa e noi con essa, l’abbiamo trasformata in un bel dipinto, un quadro artistico (cerimonie, paramenti, suppellettili, …) da ammirare, ma che resta al di fuori di noi spesso non coinvolti, partecipi, catapultati all’interno del quadro. Perciò, mentre stupiti, ammirati, commossi ringraziamo il Signore per questo dono che ci ha lasciato, impegniamoci - come singoli e come comunità - a riportarlo al suo vero significato iniziale: è il Signore che ci convoca insieme attorno alla mensa, ci guarda, ci sorride, ma ci chiede pure l’impegno mentre ci dona se stesso come cibo, forza, grazia per realizzare ciò che significa essere veramente suoi discepoli.
Per l’approfondimento. Leggi Giovanni, che come sopra spiegato, dedica ben cinque capitoli per raccontare questo evento straordinario e commovente. Gv. 13-14-15-16.
don Renato